DOPO L’ATTACCO A ISRAELE IL PRESIDENTE DELL’IRAN IN QATAR

Pubblicato da – Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia – 04/10/2024

All’indomani dell’attacco missilistico di Teheran contro Israele, in risposta all’uccisione del capo dell’ufficio politico di Hamas Ismail Haniyeh, del leader di Hezbollah Hassan Nasrallah e del generale iraniano Abbas Nilforoushan, il presidente della Repubblica islamica Masoud Pezeshkian si è recato a Doha, in Qatar. La visita era già in programma e prevedeva incontri di alto livello tra le delegazioni di Qatar e Iran, oltre a una cerimonia per firmare alcuni documenti di cooperazione tra i due paesi. Inoltre, ieri si è svolta la 45ma riunione straordinaria del Consiglio ministeriale del Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg) sull’escalation militare e gli ultimi sviluppi in Medio Oriente.

In questo contesto, Pezeshkian ha avuto anche un colloquio con il ministro degli Esteri dell’Arabia Saudita, principe Faisal bin Farhan. Secondo quanto dichiarato ad “Agenzia Nova” da Nicola Pedde, direttore dell’Institute for Global Studies (Igs), l’intenzione di Teheran era probabilmente quella di “cercare quanto più possibile di sollecitare gli attori regionali rispetto al rischio di un’escalation”, che appare sempre più probabile dopo che Tel Aviv ha fatto sapere che risponderà con forza alla rappresaglia iraniana del primo ottobre. La delegazione iraniana è arrivata a Doha in una posizione di apparente debolezza. “Teheran è fortemente isolata in questo momento, non ha particolari sponde su cui giocare e quindi quello regionale diventa uno degli aspetti più importanti oggi da sollecitare”, spiega Pedde, che però si dice scettico sulla possibilità che l’Iran possa ottenere grandi risultati, poiché “molti paesi della regione non guardano con simpatia né a Teheran né a Israele, considerati due attori problematici e pericolosi, quindi non credo che ci sia nessun reale interesse a sostenere né l’una né l’altra posizione”.

Ciò che emerge con chiarezza dalla risposta iraniana contro Israele, secondo Pedde, è che la componente politica della Repubblica islamica è stata di fatto esautorata da quella militare che ha preso il sopravvento sul processo decisionale che ha portato all’operazione, allo scopo di mettere in guardia Tel Aviv dall’entrare in un conflitto aperto con Teheran. Un conflitto che però, secondo l’esperto, non è detto che l’Iran sia in grado di sostenere, “soprattutto se cambia il paradigma di scontro come è stato nel caso di Hezbollah”. Secondo Pedde, il partito-milizia sciita fedele all’Iran “credeva di poter gestire la crisi con Israele attraverso il proseguimento di questa operazione a bassa intensità che gli consentiva di attaccare Israele con queste scaramucce di confine senza una particolare evoluzione. Quando è cambiato il paradigma di ingaggio da parte degli israeliani è venuta giù l’intera strategia di Hezbollah e la stessa minaccia incombe oggi sull’Iran”.

Gestire un confronto militare diretto con Israele, soprattutto in termini convenzionali e ad alta intensità, significherebbe per l’Iran mettersi in una situazione in cui non ha alcuna possibilità di poter competere, a maggior ragione se dovesse intervenire anche il suo alleato statunitense, spiega Pedde. L’Iran si ritrova dunque in una situazione estremamente pericolosa, ma allo stesso tempo, ricorda il direttore dell’Igs, Teheran aveva soltanto due opzioni, ovvero “non fare niente e cercare di investire politicamente per la ripresa dei negoziati con l’Occidente – ma era chiaro che l’apertura al dialogo di Pezeshkian era già stata compromessa dagli eventi in Medio Oriente – e sostenere il rischio di perdere la faccia di fronte agli alleati dell’Asse della resistenza”. La seconda opzione, secondo l’esperto, era quella di agire per preservare il ruolo di Teheran dal punto di vista delle alleanze.

Tuttavia, questa “era la carta più rischiosa nel profilo del confronto con Israele, anche perché ha portato l’Iran a fare quello che Tel Aviv in realtà voleva, cioè avere il pretesto per avere una ragione legittima per rispondere”, afferma Pedde, secondo cui “è chiaro che Israele sta cercando di arrivare a una soluzione militare con quello che considera il responsabile di tutta la destabilizzazione regionale dalla prospettiva israeliana, cioè l’Iran”. Da questo punto di vista, “è come se l’Iran si fosse volontariamente messo nelle condizioni peggiori per poter gestire questa evoluzione”, afferma l’esperto. Tuttavia, Pedde rifiuta l’interpretazione che vede Teheran come un attore irrazionale: “In realtà è parte di una valutazione molto razionale quella che gli iraniani hanno fatto, il problema è che è errata la sua radice”, ovvero “un’errata capacità di comprendere come la politica israeliana stia gestendo la fase di conflitto e questo è un errore che ha fatto Hamas prima, ha fatto Hezbollah dopo e che adesso sta rischiando di fare anche l’Iran”.

Rispetto agli ultimi sviluppi in Libano e all’escalation tra Iran e Israele, Giuseppe Dentice, analista del Centro studi internazionali (CeSI), spiega ad “Agenzia Nova” che l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti “manterranno una sorta di ambiguità”, come nel caso della Striscia di Gaza. Soprattutto nel caso dell’Iran, bisogna tener conto, secondo Dentice, della “competizione politica e geopolitica” con Arabia Saudita ed Emirati nel contesto del Golfo Persico. Per cui, Riad e Abu Dhabi, ma in generale “gli attori del Golfo e quelli arabi cercheranno di mantenere quanto più possibile un certo tipo di equilibrio che non gli permetta né di esporsi né di assumere posizioni dichiaratamente antiiraniane”, afferma Dentice.

Secondo l’analista, tuttavia, “non bisogna trascurare anche l’interesse che hanno questi attori verso Israele” sia per quanto riguarda gli Accordi di Abramo (firmati da Emirati e Bahrein, ma anche Marocco e Sudan, per normalizzare le proprie relazioni con Israele) sia con lo scopo di rafforzare la cooperazione arabo-israeliana. Riad e Abu Dhabi “non possono in questo momento manifestare esplicitamente una posizione, né hanno la volontà di assumere una posizione in favore di Teheran o Tel Aviv”, ribadisce Dentice, secondo cui “non hanno interesse e non ne trarrebbero un vantaggio né nell’immediato né nel medio-lungo termine”.

Secondo l’analista del CeSI, non è da escludere l’ipotesi secondo cui i paesi del Golfo manterranno una certa neutralità rispetto agli scontri tra Iran e Israele anche a causa della preoccupazione secondo cui un’escalation più ampia della violenza possa minacciare i giacimenti petroliferi dell’area. Nell’attaccare l’Iran, Israele “può attaccare la capitale Teheran, i siti militari, i siti del programma nucleare iraniano o le installazioni petrolifere. L’Iran potrebbe fare lo stesso verso Israele o potrebbe anche rispondere, incrementando quindi il caos regionale, colpendo direttamente o utilizzando anche gli stessi Houthi per attaccare le installazioni energetiche saudite ed emiratine”, conclude Dentice.