S’infiamma sempre di più la sfida tra Etiopia ed Egitto, sullo sfondo la partita del Nilo

Pubblicato da – Il Quotidiano del Sud – L’Altravoce dell’Italia – 15/10/2024

CORNO D’AFRICA Le relazioni tra i due Paesi sono ai ferri corti ormai da anni

Si alza sempre di più il livello dello scontro geopolitico in Africa orientale tra le due potenze regionali, Egitto ed Etiopia. Le relazioni tra i due Paesi sono ai ferri corti ormai da anni, per via dell’annosa disputa relativa alla Grande diga della rinascita etiope (Gerd), la maxi infrastruttura in fase di completamento sul Nilo Azzurro e che, una volta terminata, sarà la più grande infrastruttura idroelettrica dell’Africa, con una capacità stimata 6.450 megawatt (Mw). Un progetto che viene visto con grande preoccupazione da Il Cairo – e dall’altro Paese a valle del Nilo, il Sudan – che lo considera una minaccia esistenziale alla propria indipendenza idrica ed energetica. È intorno a questo nodo che ruota la partita geopolitica in atto tra Egitto ed Etiopia, con implicazioni anche in questioni regionali che coinvolgono altri Paesi, tra cui la Somalia e il Sudan. Sullo sfondo rimane, più di tutto, la sfida dello sfruttamento delle acque del Nilo, che sia Il Cairo che Addis Abeba considerano di vitale importanza per lo sviluppo delle rispettive economie. Una disputa destinata ora ad acuirsi, dopo che domenica 13 ottobre è entrato ufficialmente in vigore l’Accordo quadro cooperativo del bacino del fiume Nilo (Cfa), in seguito alla ratifica da parte di sei Paesi situati a monte del corso del fiume.

L’entrata in vigore del Cfa avviene dopo che sei Paesi rivieraschi del bacino del fiume Nilo – Etiopia, Kenya, Tanzania, Ruanda, Burundi e Uganda – avevano ratificato l’accordo in un incontro avvenuto a Bujumbura, in Burundi, all’inizio di quest’anno. L’accordo mira, tra le altre cose, a istituire la Commissione per il bacino del fiume Nilo (Rnbc), che dovrebbe ereditare tutti i diritti, gli obblighi e asset dell’Iniziativa per il bacino del Nilo (Nbi), lanciata formalmente nel febbraio 1999 dai ministri delle Risorse idriche di nove Paesi bagnati dal fiume: Egitto, Sudan, Etiopia, Uganda, Kenya, Tanzania, Burundi, Ruanda, Repubblica democratica del Congo ed Eritrea (in qualità di osservatore). L’entrata in vigore dell’accordo è stata salutata dal primo ministro Abiy Ahmed come “il culmine di un lungo viaggio verso l’utilizzo equo e ragionevole delle acque del Nilo”, risorsa che rappresenta una “pietra miliare storica nei nostri sforzi collettivi per promuovere una vera cooperazione nel bacino del Nilo”. Il premier etiope ha quindi invitato gli Stati non firmatari ad unirsi alla “famiglia del Nilo”, affinché insieme “possiamo raggiungere i nostri obiettivi comuni di sviluppo e integrazione regionale”. Un appello che, come prevedibile, non è stato raccolto dai capofila degli Stati a valle, Egitto e Sudan, che hanno fermamente respinto l’accordo.

In una dichiarazione diffusa a conclusione della riunione della Commissione tecnica congiunta permanente egiziano-sudanese per le acque del Nilo (Pjtc), tenutasi l’11 e 12 ottobre al Cairo, i due Paesi hanno invitato tutti gli Stati rivieraschi del bacino del Nilo “a ripristinare l’integrità dell’Iniziativa del bacino del Nilo del 1999 e ad astenersi da azioni unilaterali che potrebbero esacerbare le divisioni tra i Paesi a monte e quelli a valle”. Il Cairo e Khartum parlano di “bozza incompleta che non può, in nessuna circostanza, essere considerata rappresentativa del bacino del Nilo nel suo complesso”, e ribadiscono il loro impegno a cooperare con tutte le nazioni del bacino del Nilo, “in linea con i principi riconosciuti a livello internazionale che salvaguardano gli interessi di tutte le parti e impediscono al contempo di arrecare danno a qualsiasi Stato rivierasco”. I due Paesi sottolineano quindi che l’accordo non è per loro vincolante, sostenendo che violi il diritto internazionale “consuetudinario e convenzionale”, essendo la commissione composta da sei Stati – istituita in base alla bozza incompleta del Cfa – non rappresentativa dell’intero bacino del Nilo. Egitto e Sudan sostengono da tempo che il Cfa violi gli accordi del 1929 e del 1959 sul fiume Nilo.

Il Cairo ha respinto il Cfa citando la sentenza della Corte internazionale di giustizia (Cig) del 1989, secondo cui gli accordi sull’acqua godono della stessa immutabilità degli accordi di confine: non possono essere revocati o modificati senza il consenso di tutte le parti interessate. Secondo i due Paesi, la bozza del Cfa del 2010 non ha ottenuto il consenso necessario e non rispetta i principi consolidati del diritto internazionale e le migliori pratiche che promuovono lo sviluppo sostenibile e la cooperazione. La gestione delle acque del Nilo è regolamentata da due trattati. Il primo risale al 1929 e fu stipulato dall’Egitto e dal Regno Unito (per conto del Sudan, allora sua colonia). L’intesa riconosceva a Egitto e Sudan un diritto storico e naturale all’uso delle acque del fiume, vincolando gli Stati a monte del bacino. Nel 1956, diventato indipendente il Sudan, Khartum e Il Cairo tornarono a negoziare la ripartizione delle risorse del Nilo. Il trattato firmato nel 1959, e tuttora in vigore, assegna all’Egitto il 75 per cento delle acque, lasciando al Sudan la rimanente parte. Un’intesa che garantisce una posizione di rilievo all’Egitto che, pur trovandosi a valle, può sfruttare la porzione più grande delle risorse idriche a danno dei paesi a monte. Proprio per evitare conflitti, a partire dagli anni Novanta, sono stati fatti numerosi tentativi di riformulazione del trattato del 1959. La più importante di queste iniziative è nata nel 1999 ed è stata denominata Iniziativa per il bacino del Nilo (Nbi). Dopo anni di trattative, nel 2010 è stato redatto il Cfa, un trattato che avrebbe dovuto sostituire quello siglato nel 1959. L’Egitto trae dal Nilo il 90% del suo approvvigionamento idrico, che è già inferiore ai suoi bisogni.